Registrare il proprio marchio o logo aziendale è un processo rapido e non costoso che permette di proteggersi da numerose cause legali. Quando si rinuncia, per distrazione o per volontà, a questa tutela si può finire nel vortice in cui è caduta Supreme, la marca di abbigliamento newyorkese dedicata allo streewear e agli articoli di lusso. Vediamo questo famosissimo (ma che non fa eccezione) case study a tema!
Anni ‘90: a NY viene fondata Supreme
E’ l’aprile del 1994 quando James Jebbia, a New York, fonda Supreme. Il marchio si rivolge prevalentemente alla cultura degli skater e di punk della metropoli, e propone oltre all’abbigliamento sportivo, come t-shirt e felpe con il cappuccio, anche oggetti d’arredamento e gadget stravaganti a prezzi davvero elevati. Negli anni essi diventano oggetti di culto, venduti, collezionati e rivenduti a prezzi sempre più esorbitanti.
L’azienda commette però un tragico errore: non registra il proprio marchio in Italia. Così, si apre una via legale ma illecita sotto il profilo morale per il plagio: il cosiddetto legal fake, cioè un “falso legale”.
IBF coglie la palla al balzo
IBF è un’azienda che ha sede a Londra ma possiede stabilimenti in tutto il mondo, inclusa l’Italia e la Spagna. In queste due nazioni il brand Supreme originale, quello americano, non ha registrato legalmente il proprio logo.
L’associazione è immediata: IBF si appropria di disegni e design ed inizia a produrli fuori dal circuito originale Supreme, in modo simile per font, colore e modello, ma non identico. In particolare la produzione dei legale fake di Supreme-IBF, detto anche “Supreme Italia” avviene in uno stabilimento di Barletta, in provincia di Bari.
Supreme Italia produce i propri capi in bassa qualità, ma a prezzi estremamente più competitivi di quelli dei pezzi originali. La moda impazza e tutti vogliono una t-shirt o una felpa con il logo storico in campo rosso: per i ragazzini un prezzo tanto basso per un oggetto di culto è fonte di immediato interesse.
La “truffa” (se di truffa possiamo parlare: legalmente, Supreme Italia non sta commettendo nessun reato, proprio perché il marchio a cui si ispira non è registrato in Italia) diventa così imponente che l’azienda gestita da IBF cerca di collaborare anche con il colosso Samsung. I coreani però scoprono di non star dialogando con l’originale Supreme americana, ed interrompono le milionarie trattative in corso.
La causa legale: come sta procedendo e gli altri casi di legal fake
A piccoli colpi di sentenze su sentenze, la Supreme americana sta cercando di demolire il colosso a basso costo Supreme Italia/IBF. La strada sembra solo apparentemente in discesa: evidentemente questi oggetti sono frutto di un plagio, di un uso ingannevole del brand, dei suoi colori e del suo logo per ingannare i consumatori. Eppure, per le leggi vigenti, Supreme Italia non sta commettendo un vero e proprio illecito: senza marchio registrato come si dimostra la volontarietà del plagio?
I tribunali italiani e spagnoli stanno continuando a lavorare per rendere leciti i sequestri di materiale contraffatto e confiscato in mezzo mondo, pur battagliando contro un vero e proprio colosso che non è intenzionato a mollare l’osso.
Quella di Supreme NYC non è l’unica storia che ha come protagonista un legal fake: una sorte simile è capitata a Boy London (con il suo plagiatore “Boy London Italia”), a Pyrex Vision di proprietà dello stilista Virgil Abloh (con il suo plagio “Pyrex Original”). Dal 2017 sono stati avviati anche numerosi sequestri di legal fake riferiti a Kith, Thrasher, Vetements e Palace Skateboards.